Dovremo far caso alle parole. Occuparci di loro. Provare ad immaginare cosa nascondano. Alcune oggi sembrano essere parole faro, segnalano uno scoglio, riassumono quello che siamo e ciò che sentiamo. Fossero stelle nel cielo notturno con esse sarebbe possibile disegnare una costellazione che ha il nome del nostro tempo.

Qualche giorno fa un politico italiano usava ossessivamente la parola “brave persone”. La utilizzava reiteratamente, in maniera sincopata, a dare ritmo al discorso. Quasi fosse uno slogan offerto all’interlocutore con il pressante invito a registrarlo: brave persone — capisci cosa intendo dire? BRAVE PERSONE.

Nel pensiero elementare di questo politico “brave persone” mostra il suo valore intrinseco senza necessitare di ulteriori orpelli. Abbiamo fatto una cattiva politica dici? Può anche essere, ma siamo brave persone: siamo meglio di quelli che ci hanno preceduto, che bravi non lo erano. Tutto questo è sufficiente.

Un altro politico di quelli oggi al centro dell’attenzione utilizzava qualche tempo fa — anche lui in maniera ripetuta e intenzionale — la parola “buonsenso”. Lo invocava. Sgombrava così il campo da premesse definitive e semplificatorie, come per esempio essere delle brave persone, per occuparsi di elementi fattuali collegati alle decisioni politiche. Scegliamo con il buonsenso, noi. Una caratteristica talmente malleabile da poter significare qualsiasi cosa, eppure ugualmente compresa — ben prima di oggi — già nella retorica dei valori comuni, quella del “buon padre di famiglia”, fin dai tempi di Giustiniano. Del resto come riassumere in una sola frase valori etici che si immaginano comuni a tutti dentro una società invece ormai irrimediabilmente atomizzata?

Le parole non sono casuali. Le brave persone e il buonsenso allontanano entrambe il cruccio decisionale, l’essenza stessa dell’azione politica, la quale prevede, qua e là, la presenza di un bivio, la necessità di scegliere, l’obbligo di scontentare alcuni accontentando altri.

La potenza di simili parole in politica consente invece di sfuggire — anche se limitatamente a un orizzonte recintato legato alle parole stesse — a quest’onere fastidioso: noi non decidiamo il preferito dei nostri figli, siamo brave persone, utilizziamo il buonsenso: le decisioni si prendono da sole, si compiono fuori da noi.

È tutta qui l’essenza del discorso populista. La ricerca del tema perfetto che piaccia a tutti e non scontenti nessuno. È da quelle parti anche la sua utopia, destinata prima o dopo a trasformarsi in nodo che viene al pettine.

Aggiungo altre due espressioni che forse definiscono meglio la costellazione dei nostri tempi.

La prima è “Persone normali”, il titolo di un romanzo di Sally Rooney che ho letto nei giorni scorsi e che si collega in maniera potentissima a questo discorso. Di cosa narra il libro? Dell’educazione sentimentale di due giovani nell’Irlanda dei nostri tempi, delle loro incertezze e delle loro complessità. Della ricerca della felicità e del fracasso mentale che sempre minacciosamente incombe su di noi. Rende conto, quel testo, delle mille sfaccettature che rimangono in silenzio dietro la faccia delle persone, dell’impossibilità, molto spesso, di tracciare un confine fra normalità e sua assenza. Così il titolo del romanzo è il suo doppio: la ricerca di una normalità, la presa d’atto della sua impossibilità. Nulla più di questo romanzo, mentre parla d’altro, smaschera la vacuità e l’inconsistenza della politica del buonsenso. Come se dicesse: guardate che il buonsenso non esiste: è una valle di lacrime là fuori, è tutto una formidabile complessità nella quale sarà già tanto se riusciremo a rimanere interi.

La seconda è “fare le cose bene”. È un’espressione che ho sovente utilizzato anch’io, dopo averla mutuata anni fa — mi pare — da un libro di Luca Sofri intitolato “Un grande paese” (un titolo che, per come sono poi andate le cose, potrei associare ad alcune espressioni apotropaiche). Fare le cose bene è un’altra espressione apparentemente convincente. Attinge al medesimo serbatoio di buonsenso ed ottimismo dal quale sembriamo non riuscire a discostarci. Come le altre nasconde un sottotesto. Come le altre cela un doppiofondo populista.


Scrive Franco Fortini nel 1965:


C’è una formula ipocrita — far bene il proprio mestiere — che è divenuta lo schermo di molte vigliaccherie, soprattutto nelle nuove generazioni. È la formula di moda, quale già sorse all’indomani della vittoria fascista: e significa l’accettazione del sistema. C’è invero un solo mestiere che siamo tenuti a far bene ed è quello di uomini, cioè quello di una integrale responsabilità nel senso di: rispondere con la vita. Solo dopo tutta una serie preliminare di affermazioni e negazioni, di scelte e impegni, continuamente rinnovata e ripetuta, può fondarsi l’etica del lavoro ben fatto e della serietà professionale. Non esistono lavori ben fatti se non si sa a cosa servono.


Alle parole del populismo, alla loro affettata superficialità, alla retorica del buonsenso e delle brave persone, alla bugia intenzionale delle persone normali e a quella del lavoro fatto bene, non sarà possibile rispondere con altre parole. Perché il populismo intossica il linguaggio come il genocida avvelena i pozzi. Non resteranno altre espressioni disponibili.

Alle parole vaghe e deresponsabilizzate del populista non avremo quindi altra alternativa di rispondere con i fatti. I piccoli insignificanti e silenziosi fatti della nostra vita quotidiana. Ognuno con i propri.



(originariamente pubblicato su Medium)

3 commenti a “Il cielo dei populisti”

  1. Pierluigi Rossi dice:

    C’è un un altro modo, invece, che Mantellini, forse solo per pudore, non menziona, dato che è quello che lui stesso usa, e cioè un buon linguaggio.
    Mi rendo conto che posso sembrare molto ruffiano, ma questo è un post (messaggio?) molto bello.

  2. Emanuele (l'altro) dice:

    Vi sembra che il governo attuale ricerchi il tema perfetto per non scontentare nessuno?
    Tanto per capire se credete davvero a quello che scrivete.

  3. Bandini dice:

    Sono d’accordo con Pierluigi. Se il populismo intossica il linguaggio come il genocida avvelena i pozzi, noi possiamo disintossicare il linguaggio così come si possono depurare i pozzi. O quantomeno possiamo trovare nuovi pozzi, inventare un nuovo linguaggio. Ma abbandonare il linguaggio dandolo per perso equivale a una resa. Anche il fascismo a suo tempo avvelenò il linguaggio (pensiamo alla retorica futurista della “guerra sola igiene del mondo” poi fatta propria dal regime), ma contro queste parole furono usate altre parole, diverse, che ne smontarono tutta l’insopportabile retorica e violenza. E se c’è un ambito dove le parole si fanno resistenza, se c’è un campo da dove sempre si può ripartire per ritrovare le parole giuste e la demistificazione di quelle avvelenate, io penso che questo sia la poesia: come ci ha ricordato Mantellini stesso postando ad esempio le poesie di Baldini.