Sono passati tre anni da quando ho smesso di scrivere sui social network. È accaduto improvvisamente, in occasione di un problema di salute di cui ho sofferto. Dopo un periodo di convalescenza, durante il quale avevo altri pensieri, ho deciso che non avrei ricominciato: nei due decenni precedenti avevo commentato in rete quasi quotidianamente gli argomenti che mi interessavano. Mia moglie, a quel punto, aveva aggiunto preoccupazione a preoccupazione. Il mio medico (vecchio lettore delle mie cose) quando vide che da tempo non aggiornavo il blog manifestò qualche apprensione per la mia salute psichica e mi disse testualmente:
“ricomincia a scrivere o dovrò prescriverti dei farmaci”.
Se un’abitudine tanto radicata viene interrotta improvvisamente, nelle persone che ci sono vicine nasceranno nuovi interrogativi.
Da quando ho iniziato ad utilizzare Internet, a metà degli anni novanta, la rete è stata per me due cose assieme: un luogo di conoscenza e un luogo di relazioni. Frequentavo a quei tempi quel poco che c’era: le mailing list tematiche, i gruppi di discussione di Usenet; poi, qualche anno dopo, i primi weblog. Mi interessavano le informazioni e mi interessavano le persone. Uno dei miei primi “amici di rete” fu un ragazzo giapponese con il quale scambiavamo consigli su come creare le prime gif animate. In una Internet quasi solo testuale le prime immagini in movimento su Netscape scatenavano meraviglia e incredulità.
Molte delle convinzioni che io e altri avevamo maturato a quei tempi suonano oggi per quello che poi si sono dimostrate essere: idee – nella migliore delle ipotesi – ingenue e superficiali. Pensavamo, per esempio, che l’accesso diretto ad altri contenuti e ad altre persone avrebbe migliorato il mondo. Oppure che la quantità enorme di informazioni che andavano sommandosi nell’archivio digitale avrebbe tagliato le gambe ai bugiardi, annichilendoli con l’evidenza dei fatti. Pensavamo che l’accesso alla cultura senza più barriere di ingresso avrebbe aperto le menti di molti; eravamo certi che l’overload informativo fosse una questione di puro design (non esistono troppe informazioni – dicevamo allora con convinzione – esistono solo informazioni che non sono state filtrate come meritano).
Era quello – comunque siano poi andate le cose – un lungo elenco di sogni digitali che era lecito sognare. Potevamo essere ingenui, certo, potevamo anche essere stupidi – io molto spesso lo ero – ma di sicuro eravamo autenticamente appassionati. A quelle ingenuità e a quelle stupidità, tornassi indietro, applicherei maggiori cautele, potendo alcune non le ripeterei: di sicuro, però, si trattava di idee e aspirazioni di cui mai, nemmeno ora, mi sono vergognato. Mi piace in fondo questa idea di essere stato, per un lungo tratto della mia vita, uno stupido di buon cuore.
L’unico luogo di rete nel quale continuo a scrivere, molto più saltuariamente di prima, è il mio blog. Me lo ha ordinato il dottore tre anni fa, quando non volevo saperne più di Internet e cazzate simili, e forse è stata una buona idea; tuttavia nemmeno il mio blog è uscito indenne dal nuovo giudizio che andava formandosi dentro di me sulla mia presenza in rete. Lo faccio saltuariamente perché mi crea sincero imbarazzo ma quando rileggo post che ho scritto dieci o quindici anni fa il mio primo pensiero è: ma chi è questo scemo che parla? Chi è questo trombone pieno di certezze con un punto di vista su tutto? Soprattutto: perché questo tizio pensa che sia una buona idea condividere tante differenti opinioni con una vasta platea di estranei? E la cosa forse maggiormente sconvolgente – ripensandoci adesso – è che a quei tempi ero un trombone con un suo piccolo seguito.
La nascita dei social network ha cambiato lo scenario. Ma non si è trattato di un miglioramento. È accaduto un poco alla volta e, a parte minime eccezioni, le reti sociali hanno creato un terzo incomodo fra gli utenti di Internet (che nel frattempo diventavano milioni) e le nostre aspirazioni. Nella costruzioni di relazioni fra persone e nel processo di accesso alla conoscenza si è materializzata una figura che è diventata nel tempo sempre più ingombrante: la piattaforma.
È la piattaforma che silenziosamente – il più silenziosamente possibile – detta le regole delle relazioni, orienta il discorso pubblico, stabilisce il ruolo dei singoli soggetti ospitati gratuitamente nel suo terreno recintato. Ai suoi utilizzatori non professionali (per quelli professionali sono dolori ancora peggiori) viene riservato un ruolo da comprimari che simula quello dei protagonisti, ruolo che a loro del resto va benissimo e che negli anni – sempre per scelta della piattaforma – è andato spesso modificandosi: prima gli utenti dei social erano gli animatori liberi e scapigliati di aspre discussioni, poi sono diventati i bersagli degli investitori pubblicitari e dell’industria editoriale, poi ancora gli obiettivi della più spregiudicata propaganda politica. Agnelli sacrificali senza nemmeno avere il sentore di esserlo, ogni volta su un altare differente.
Non aggiungerò stupidità alla stupidità dando la colpa di tutto questo alle piattaforme. È vero semmai il contrario: il grande successo di Facebook o di Instagram non è stato in nessuna maniera una forma di circonvenzione di incapace ma semmai qualcosa d’altro. Il successo dei social è stato il risultato della lettura molto precisa delle aspirazioni e dei desideri di una massa di persone che, nel frattempo, era diventata enorme e varia. Persone radicalmente differenti dal me di dieci anni prima, con altri intenti e alla ricerca di differenti stimoli, ma unite da un medesimo desiderio di attenzione e ascolto.
Allo stesso modo sarebbe sciocco anche affermare che i social network abbiamo rappresentato lo spirito del tempo. Insomma se il mondo va a rotoli (va a rotoli? certo va a rotoli, da qualche migliaio di anni) non sarà solo colpa delle piattaforme di rete cattive e non sarà solo colpa della mediocrità complessiva delle persone. Sempre tenendo a mente che la mediocrità è sempre degli altri e mai la nostra.
A un certo punto della mia parabola digitale, quando iniziavo a rendermi conto che le mie aspirazioni si allontanavano così nettamente dalla realtà intorno, iniziai a pensare (e a scrivere) che Internet era stata ed era – certo – una formidabile macchina di relazioni e conoscenza ma per una minoranza di persone (poi nel tempo cominciai a pensare “per una grande minoranza di persone”) e che invece stava diventando un problema per molte altre, che erano numericamente assai di più.
Quando qualcuno chiese al rabbino Zalman Schachter-Shalomi se al mondo prevalesse il bene o prevalesse il male il rabbino rispose: predomina il bene, ma non di molto. Io a quei tempi pensavo che nel caso di Internet e dei suoi effetti sulle persone stava prevalendo il male, anche se non di molto. Poi successivamente cominciai a pensare che prevaleva il male, ma molto di più. Che è poi quello che penso anche ora.
Scrissi un libro in quel periodo che si intitolava Bassa risoluzione. La tesi di quel breve saggio era che esistevano due elementi della nostra umanità che dominavano il mondo digitale: una vasta e intrinseca superficialità che ci faceva planare rapidamente sopra le cose del mondo per poi richiamarci rapidamente altrove, e la possibilità, mai accessibile prima di allora, di fermarsi invece sopra di esse, di approfondirle e considerarle a fondo, penetrando la loro essenza. Le informazioni per farlo erano per la prima volta ampiamente disponibili, stava solo a noi saperne approfittare.
Non trovo troppo di sbagliato in quell’idea, nemmeno dieci anni dopo averla scritta: quello che è mutato dentro di me da allora è stato, prima le proporzioni fra le due possibilità poi, col tempo, il sospetto sempre più forte di una incompatibilità fra superficie e profondità. Una specie di pietra tombale sul mondo e sulle sue possibilità di redenzione alle quali ero così affezionato.
Sarà probabilmente un pensiero da vecchi, quando si inizia a considerare il tempo come una risorsa scarsa, ma lo scrolling infinito di TikTok e il suo volo ad ali di gabbiano sulle cose del mondo in continuo mutamento assomiglia per me molto più a una prigione che non a una forma di piacevole intrattenimento.
Quando ho smesso di scrivere sui social network ho provato alcuni sentimenti molto forti. Di alcuni di essi, del loro puntuale ripresentarsi, continuo a meravigliarmi anche adesso. Quando le pratiche della nostra vita diventano abitudinarie e quotidiane (considerate che ho interagito e commentato su Twitter per almeno quindici anni di seguito) si crea una sorta di dipendenza della quale nemmeno si sospetta l’esistenza Al riguardo percepivo, e percepisco tuttora, una mancanza. Leggo qualcosa che mi entusiasma (raramente) o mi indigna (molto più spesso) e non ho più a mia disposizione l’arco riflesso di scriverne immediatamente sui social. Che idea sciocca di noi suggeriscono simili piattaforme! Quella di essere costantemente ascoltati e valutati dagli altri, che le nostra parole valgano, che siano attese e stimate dai nostri amici e da una grande platea di estranei che certamente, in qualche maniera, saprà valutare il nostro acume e la nostra simpatia. Come faranno costoro adesso senza di me? Come farò – soprattutto – io senza di loro?
Contemporaneamente ho iniziato a provare una sensazione di grande sollievo. Una specie di nuova libertà dallo stesso arco riflesso di prima: la possibilità inedita di avere dei punti di vista e – finalmente – non esprimerli. Esiste una fatica sotterranea nell’essere sempre attivi nelle discussioni di rete. Un pronti-attenti-via che coinvolge la nostra autostima, le nostre insicurezze, le nostre lacune culturali. Ecco che quella fatica improvvisamente scompare: nessuna maschera di scena sarà più necessaria, nessuno ci chiederà più niente, no discussioni, nessun litigio spuntato dal nulla. Nessuno ci insulterà più, nessuno annuncerà una prossima querela per quanto abbiamo appena scritto di lui.
Apprendere una notizia sui social o in TV, indignarmi per un istante, magari scambiare un commento al riguardo con chi ho accanto e poi tornarmene alle mie cose senza che null’altro accada. Un sollievo.
I social network non sono solo una valvola di sfogo. Per lo meno non lo sono mai stati per me. Sono stati per lo più – come credo per molti – uno strumento di affermazione personale: nei giorni migliori un tentativo di trovare in rete i propri simili, in quelli peggiori una dimostrazione di potenza, tanto più ridicola quanto più le dimensioni materiali della propria personale influenza saranno esigue. Quelli che per qualche ragione riusciranno a raccogliere da quelle parti una audience fedele e numericamente meno trascurabile (qualche migliaio di follower, oppure centinaia di migliaia o addirittura qualche milione di misteriosi profili in ascolto al di là dallo schermo) potranno crogiolarsi nell’idea di una propria raggiunta affermazione sociale e potranno domandarsi cosa accadrebbe nel momento di una loro eventuale scomparsa dai social. La risposta a questa domanda è semplice e istruttiva e vale per chiunque: niente.
Lo si comprende appieno quando questo distacco avviene davvero. I legami digitali sono sempre, per loro stessa costituzione, legami deboli. Ti senti al centro della grande conversazione ma sei solo un puntino blu in mezzo alla galassia.
È questo un altro elemento non trascurabile nella ricostruzione ex post di cosa siano state davvero le reti sociali: un ambiente caotico, pesantemente inquinato dalle adulterazioni della macchina, caratterizzato da contributi superficiali che avvicinano fra loro, a grande velocità, persone debolmente connesse. Ci sono – mi pare – elementi sufficienti per vaticinare un prevedibile fallimento di questa idea di “internet delle persone” che i teorici della rete avevano immaginato ad inizio secolo con il celebre nomignolo Web 2.0. La Internet delle persone, come si diceva allora, stava già diventando una usuale operazione di marketing senza che a noi importasse troppo. Come ogni tossico che si rispetti continuavamo a ripeterci: questa cosa la posso controllare.
Le ragioni per cui io per così tanto tempo abbia voluto far parte di un mondo del genere, pur avendone almeno in parte riconosciuto i limiti, continuano ad essermi per lo più incomprensibili. L’unica che decodifico con chiarezza, come dicevo poco fa, è il desiderio di piacere agli altri. Un sentimento umano e diffuso, forse un po’ imbarazzante, che nel frattempo non ho più.
Uno degli errori più frequenti quando si prova a discutere di temi di cultura digitale – come io sto provando a fare qui da un po’ – è quello di presumere che il proprio punto di osservazione sia sufficientemente ampio per consentire di cogliere un’idea complessiva e poi raccontarla. Non è proprio così: non esiste una sola Internet e lo spicchio di mondo che si offre di fronte a noi non è quasi mai una fedele rappresentazione del tutto. Solo l’arroganza dei nostri tic da intellettuali o le necessità contingenti degli esperti, il cui compito è produrre un riassunto intellegibile del mondo, possono aver immaginato di spiegare la rete attraverso schemi semplificati. D’altro canto è anche vero che la natura impalpabile degli ambienti digitali, la loro volatilità e variabilità, ad essere troppo rigidi, non consentirebbe alla fine di discutere di nulla. E se l’alternativa è fra il banalizzare e il nulla, beh vada per la prima. Qui di seguito continuerò quindi a banalizzare un po’ ma le dissertazioni sulla parabola dei social network, sulla loro nascita, sulla loro impetuosa crescita e sulla loro attuale traiettoria discendente che si sta avviando a un finale simil-televisivo, con il ristabilirsi di un emettitore da un lato (quelli che vengono definiti oggi influencer o creator) e una vasta platea di semplici ascoltatori dall’altra, vanno intese come tentativi di analisi del piccolo frammento di mondo di fronte ai miei occhi e nulla di più.
Due sono le variabili principali che determinano una simile impossibilità a una visione unitaria: una variabile geografica (la Internet africana, quella euro-americana, quella asiatica sono reti sociali – Internet è sempre stata fin dall’inizio una “rete sociale” ben prima dei social network – spesso descritte da giudizi che le comprendono tutte assieme mescolando mondi diversissimi) ed una variabile anagrafica. Quest’ultima è per me particolarmente interessante. Limitandosi all’Italia, per utilizzare un esempio che ho sotto gli occhi, nessuna persona di età inferiore a 30 anni utilizza Facebook da anni. Se così stanno le cose potremo utilizzare Facebook come la cartina di tornasole di qualcosa di non geriatrico?
La mia timeline sul più utilizzato social network italiano, dove le persone che seguo sono le medesime di quindici anni fa, è un flusso continuo di anziani ed anziane perfettamente operativi, di vecchiogiovani che discutono delle loro cose, che commentano notizie che trovano interessanti, che condividono amori tardivi o molto più spesso lutti, che inneggiano alla musica di una volta e ne sostengono ogni giorno l’incontestabile superiorità rispetto a quella attuale. Forse potrà consolare o forse no ma la questione della musica è ricorrente: anche Platone ne La Repubblica qualche centinaio di anni prima di Cristo segnalava i pessimi gusti musicali dei giovani.
Questa segmentazione generazionale diventa però un problema rilevante nel momento in cui ci si interroga su dove stia andando Internet in generale.
Dove sta andando? E chi lo sa.
Una sociologia di Internet tentata da noi oggi è molto spesso una sociologia del proprio vicinato da parte di persone che non sono mai uscite dal loro quartiere: parliamo di quelle poche cose che conosciamo e ignoriamo tutto il resto. Occorrerebbe tenerne conto quando ci si avventura verso i massimi sistemi.
A proposito dei massimi sistemi: i primi due decenni del ventunesimo secolo sono stati caratterizzati da due rumorosi collassi. Quello informativo e quello della rappresentanza politica. Entrambi hanno scelto il medesimo dirupo mentre noi continuiamo, sempre più flebilmente, ad affidar loro il nostro destino di esseri sociali. L’informazione è al punto più basso della propria prostituzione e a quello più alto della propria inconsistenza: oggi i media (una buona parte) si sono trasformati da presidi del pluralismo a strumenti attivi di perturbazione dei meccanismi democratici. Così, se vorremo provare a districarci nella complessità delle cose del mondo, non sarà attraverso di loro che riusciremo a farlo. Saranno semmai i media a cercare di orientare noi.
L’altro pilastro collassato, nei paesi in cui la democrazia continua in qualche maniera ad essere esercitata, è quello della rappresentanza. La qualità della classe politica che ci governa è sotto gli occhi di tutti. È di fronte a noi l’ampiezza di pensiero e la proprietà di linguaggio delle persone che abbiamo eletto, l’orizzonte culturale che le anima, la visione del futuro che le indirizza. Sono costoro, per dirla con una battuta, quello che siamo diventati.
L’inevitabile domanda finale in questo caso, e anche – se volete – un’ipotesi di critica ad un approccio tanto disfattista, è chiedersi se non sia stato sempre così. È questa del resto la domanda che dovremmo farci sempre prima di tentare qualsiasi ipotesi sul futuro.
“Ma non è sempre stato così?”
La risposta per conto mio è no, non è sempre stato così. Non era così quando la società era meno connessa di oggi; nei meccanismi di emersione di cattiva informazione e cattiva rappresentanza gli ambienti digitali hanno giocato un ruolo importante. Ovviamente gli esseri umani non sono troppo cambiati ma, per paradosso, aumentando i meccanismi di connessione sociale attraverso le macchine, abbiamo saputo organizzare e portare in superficie energie negative che prima rimanevano placidamente inespresse.
Ciò che un tempo ci entusiasmava è ciò che ora dovremmo iniziare a temere.
Una società molto connessa è un luogo di grandi fragilità emergenti, un organismo biologico nel quale spesso prevalgono in modo competitivo le scelte meno utili alla comunità. Allontanarsi è allo stesso tempo abbastanza urgente e molto complicato. Allontanarsi servirà a noi come singole persone ma, in un mondo del tutto atomizzato, nel quale tutti sono ormai in qualche modo connessi con tutto, non risolverà molti problemi.
Un simile allarme rischia ogni volta di essere interpretato da alcuni come un rimbrotto senile, da altri come un’aspirazione luddista.
L’anziano tipicamente odia il cambiamento, applica i propri canoni ad un mondo differente da quello nel quale essi si sono forgiati e desidera, in maniera più o meno irremovibile, che tutto torni com’era prima. È quindi la persona meno idonea a dare indicazioni alla società (della quale ancora fa parte) sul futuro che la attende. Quello che l’anziano sta vivendo con crescente difficoltà è già il suo futuro, non ha spazi per immaginarne di ulteriori. Sarà lui quindi il primo ad alzare grida di allarme e, per le ragioni appena citate, il primo ad essere ignorato.
La tecnologia dal canto suo mantiene un’aura magica che sembra inestinguibile; in certe zone del mondo è l’ambito attraverso il quale nel secolo scorso, basandosi sulla potenza nascosta del codice binario, alcuni stati hanno costruito il proprio dominio sugli altri, nelle altre è individuata come un’occasione di rivalsa e riscatto alla quale affidarsi. Il salto fra il non avere e l’avere il controllo sulla tecnologia è talmente ampio che un simile sogno non è negato a nessuno: per moltissimi è l’unico sogno praticabile. La tecnologia quindi non si rifiuta e chi la mette in discussione è un luddista. La macchina ha ragione per definizione. Perfino quando, come nel caso recente della discussione sull’intelligenza artificiale, il risultato atteso non è più quello di un luminoso ausilio ma quello di una possibile sostituzione.
Mentre il ventennio social si va spegnendo che fine hanno fatto i suoi protagonisti? Come passano il tempo che prima impiegavano sulle piattaforme a condividere pensieri e immagini con i loro amici?
Dove li troveremo dopodomani è ancora una volta complicato immaginarlo; per ora sembrano aver preferito una posizione maggiormente defilata: non defilata come la mia ma quasi.
Occorrerà al riguardo ridurre al minimo ogni ingenuità: anche il recente deflettere verso un mondo meno social e più intimistico non è (solo) un desiderio condiviso originato dentro la società civile ma è – almeno in parte – una scelta silenziosa suggerita dalla piattaforma.
In questa ricerca di Pew Research dedicata agli utilizzi degli utenti americani adulti di Tiktok, la piattaforma – come si dice sempre – oggi maggiormente utilizzata dai giovani (anche se l’espressione “maggiormente utilizzata dai giovani” è un tipico riflesso decadente, perché quando qualcuno la sta scrivendo i famosi giovani si sono già trasferiti altrove, in un altrove che all’autore della frase è ogni volta del tutto ignoto), si delinea da un lato il ridimensionamento dell’intrattenimento mainstream (8%) e dall’altro il rifiuto ormai ubiquitario del sistema informativo professionale (0,4%). Quest’ultima è paradossalmente una buona notizia perché l’informazione fa già sufficiente fatica a sopravvivere dentro i propri ambienti dedicati, senza dover ogni volta piegarsi a presidiare prima Facebook, poi Instagram e ora Tiktok al disperato inseguimento dei propri teorici lettori che invece si trovano lì per tutt’altro.
Abbandonata ogni velleità di cambiare il mondo, accantonate le aspirazioni di far parte della “grande conversazione”, gli utenti americani di Tiktok dedicano il proprio tempo (48%) a creatori di contenuti (abbiate pazienza ma creator non riesco a dirlo) medio-piccoli, persone come loro ma non esattamente come loro, intrattenitori con i quali sarà più facile identificarsi e ai quali affidano la loro attenzione. Scelgono insomma – con convinzione – la superficie ma in una modalità inedita. Assomiglia questa a una forma contemporanea di “amicizia”, nella medesima accezione che utilizzava Facebook un tempo: l’utente di Tiktok tira un filo, e poi ne tira un altro e poi un altro ancora, creando una rete intorno a sé: un ambiente familiare nel quale si riconosce. Una ragnatela a senso unico fatta di persone non tanto dissimili da lui, per comodità definite “amici”. Questa è la sintesi di quello che fanno molti utenti degli ambienti digitali oggi: meno partecipazione e più ascolto, dentro un universo relazionale che non li faccia sentire un puntino blu sperduto nell’universo.
Collegata a questo c’è un’altra cosa che forse ho capito dopo aver abbandonato i social e riguarda ancora l’informazione. Ho iniziato a pensare, che l’informazione in sé non sia così importante come credevo. Ho amato le notizie per decenni, per dire la verità mi interessano anche ora, e vi risparmio qui di seguito la solita nenia su quanto sia importante essere informati per poter decidere consapevolmente su qualsiasi cosa, e vi risparmio anche l’altra lamentazione sul fatto che i regimi e le dittature imperano costruendo un universo informativo di cartapesta per i loro sudditi, ma i miei anni di vita sociale negli ambienti digitali mi avevano – me ne accorgo bene ora – assoggettato completamente al flusso informativo.
Accadevano di continuo cose che mi interessavano e sulle quali volevo informazioni di prima mano: la loro mancanza mi sembrava un delitto di lesa maestà alla mia intelligenza e un cattivo utilizzo del mio tempo. Volevo moltissime notizie per capire il mondo in cui vivo e le volevo il prima possibile, magari mentre stavano accadendo, anche se riguardavano una minuscola regione dall’altra parte del mondo. Sapere prima degli altri cosa stava accadendo era invece il più sciocco dei privilegi. In questo trionfo del tempo reale i social (soprattutto Twitter) hanno avuto negli anni un’importanza enorme. A un certo punto quello che alcuni blogger americani di inizio secolo chiamavano “river of news”, un fiume informativo che mai si placa, ha iniziato a sembrarmi trascurabile. Ho smesso di seguire le notizie nel momento in cui si stavano materialmente creando (e con esse tutto il contorno delle accese discussioni limitrofe fra addetti ai lavori ed amatori) e ho ricominciato, come tutti, ad accontentarmi del loro riassunto professionale. Sono uscito dal fiume delle notizie ed ho messo i miei vestiti ad asciugare.
Al momento ho attivi solo due abbonamenti a progetti informativi italiani: quello a Internazionale (che per sua natura è un progetto riassuntivo esso stesso, intenzionalmente alieno al caos delle breaking news) e quello a Il Post al quale mi legano anche fili personali molto saldi. Per il resto, come molti, mi accontento dei titoli che leggo nelle pagine gratuite dei grandi siti informativi italiani.
Molto di ciò che un tempo consideravo informazione, o discussione attorno all’informazione, si è trasformato in un trascurabile rumore di fondo: il silenzio che lo ha sostituito dopo la mia uscita dai social network è un silenzio che oggi trovo confortevole. Sono probabilmente una persona meno informata di prima ma una buona quota di quel lavorio informativo al quale volentieri mi sottoponevo ogni giorni era, se non dannoso, non così utile alle mie aspirazioni di conoscenza. Oggi tendo a pensare che una pagina di Roberto Bolaño contenga forse maggiori informazioni e di sicuro mi giovi di più delle molte ore spese su Twitter a discutere di temi di attualità, scandali mediatici o pettegolezzi sul giornalismo italiano.
Così mentre procede con discreto brio il mio allontanamento intenzionale da “la parte abitata della rete” (è curioso che questo titolo di un libro di Sergio Maistrello del 2007 che per molto tempo ha rappresentato per me e per molti altri una sintesi entusiasmante del nostro essere in rete ora invece descriva con precisione il confine fra i luoghi che voglio e che non voglio più frequentare), mentre percorro questo personale viale del tramonto, un dubbio continua ad inseguirmi. Chi sono le persone che oggi continuano ad utilizzare i social? Quanto è puntuale il ritratto che noi “fuggitivi” ci siamo fatti di loro? Quanto è attendibile il riassunto per sommi capi che i media dedicano loro quotidianamente?
Io non sono ovviamente il pazzo rinsavito che ha abbandonato la nave dei folli ed ora prova a raccontarlo e la sociologia per riassunto delle dinamiche digitali che ci viene restituita dai media è caratterizzata per lo meno da grandi imprecisioni (quando non da invenzioni costruite di sana pianta perché una storia possa suonare bene ed essere venduta meglio) che dipendono oltre che dalle due variabili di cui dicevo poco fa (quella geografica e quella anagrafica) anche, e sempre, dalla variabile più importante e meno considerata: quella dell’opinione dei silenziosi.
Quando proviamo a immaginare gli impatti della rete sulla realtà, ogni giudizio che proveremo a costruire immediatamente sprofonda per questa assenza gigantesca di informazioni dalla maggioranza silenziosa dietro lo schermo dello smartphone (un tempo avremmo detto “computer” ma tant’è). Con quale pretesa proveremo a interpretare la società in rete se la maggioranza, la grande maggioranza delle persone passate da lì, ha letto, visto o ascoltato e poi ha scelto di non lasciare segno? Quando – insomma – la maggioranza è come sono io adesso? Come potremo disegnare i tratti di una assemblea digitale considerandone solo le manifestazioni esplicite (molte delle quali in varia misura intenzionalmente plateali) ben sapendo che esse sono un misero scintillio nel cielo blu di prima? Gli uomini in rete odiano le donne? Gli accenni xenofobi o razzisti dominano le discussioni di rete? Il dileggio o la diffamazione sono diventati la misura del nostro confronto sociale?
Qualsiasi giudizio di valore sugli ambienti digitali dovrebbe passare sotto la ghigliottina statistica di chi, pur contando come gli altri, pur avendo opinioni e comportamenti conseguenti, è rimasto in silenzio. E il risultato, volendo essere onesti, sarebbe sempre il medesimo. Se la domanda è: “Che fine ha fatto la società in cui viviamo dopo la svolta digitale? La risposta dovrebbe essere: “Noi non lo sappiamo”. È la vecchia faccenda del nesso di causalità che si ripresenta ogni volta puntualmente.
Non sappiamo se dietro il filtro digitale gli uomini odino le donne più di quanto non accadesse prima. Non sappiamo se sui social network siamo più razzisti di prima, se siamo più violenti o insolenti di prima, se il nostro utilizzo dei congiuntivi sia peggiorato, migliorato o se è lo stesso di prima.
Non-lo-sappiamo, e se anche ci pare che i punti di repere, gli elementi da sommare per costruire un disegno complessivo siano oggi molti più di un tempo, c’è qualche possibilità che non sia tutto così semplice.
Si tratta in ogni caso di un’ignoranza molto malleabile. Da un lato potremo utilizzarla per minimizzare la narrazione tossica sui social network (personalmente l’ho fatto, non so quanto utilmente, molte volte) quando a questi viene pigramente associata qualsiasi nefandezza, dall’altro ogni accenno alla minoranza silenziosa che non si schiera, per calcolo o molto più spesso per assoluto disinteresse, ne sanziona l’irrilevanza sociale. Ed è da quelle parti che forse si sfiora il punto centrale di ogni discussione sul futuro degli ambienti digitali. È la maggioranza silenziosa che con la propria inazione detta la linea e, senza averne coscienza, orienta il mondo. Le possibilità che una simile linea non sia di nostro gradimento sono – come dire – piuttosto rilevanti.
Ho tenuto cara per molti anni (e l’ho cara tutt’ora) una frase di Franco Carlini, che è stata una delle persone che ho stimato maggiormente fra le molte che ho conosciuto in quasi trent’anni di vita digitale. È una frase che appuntai molti anni fa su un foglietto che nel frattempo ho perduto, tratta da un testo che non ero mai riuscito a reperire fino a pochi giorni fa. Scriveva Carlini agli inizi del nuovo secolo, qualche anno prima di morire, citando i nuovi meccanismi di condivisione del pensiero in rete che anticipavano di qualche anno i social network:
È questo il prezzo che la specie umana paga al suo successo: avendo evoluto un grande cervello non può affidarsi solo all’istinto e ai geni per produrre il proprio ambiente e per regolarsi. Deve rassegnarsi a collaborare. Deve rassegnarsi alla pace.
Franco Carlini era un uomo nuovo, di sinistra ma molto poco ideologico, pieno di pragmatismo ed apertura mentale. Mi sono chiesto spesso come avrebbe giudicato oggi questa Caporetto sentimentale della parte abitata della rete; se anche in tempi del tutto differenti da quelli che lui ha vissuto avrebbe saputo trovare una chiave di lettura per mantenere unite da un lato la dignità di una certa idea di progresso e dall’altro la necessità di rimanere radicati nel tempo presente. Nel tempo presente del grande cervello digitale. Un cervello che sembra oggi molto differente da quello delle aspettative progressive di Franco.
Io, che tutto questo non so fare, perché sospetto che ciò sia ormai semplicemente impossibile, perché penso che la macchina abbia messo assieme, fra le proprie allucinazioni, anche un intrinseco istinto reazionario, credo che la battaglia del tempo presente digitale possa essere al massimo una silenziosa strategia di arretramento e conservazione. Riuscendo – se potremo – a mantenere memoria di quanto è accaduto. Tenere a mente i nostri errori per la prossima volta. Un libretto degli appunti da consultare quando ce ne sarà bisogno.
Verso la fine del primo grande romanzo della letteratura mondiale Don Chisciotte elenca al suo scudiero Sancio Panza, in procinto di diventare “governatore di un’isola”, quali secondo lui siano le caratteristiche principali del sovrano illuminato. È un lungo elenco stilato da un pazzo, ma ugualmente pieno di consigli del tutto razionali. Sancio ascolta rispettoso e poi replica:
“Signore – rispose Sancio – ben vedo che tutto quanto vossignoria mi ha detto son cose buone, sante e utili; ma a che serviranno mai se non mi ricordo di nessuna? Di certo quella di non lasciarmi crescere le unghie e, se si darà il caso, di riprender moglie, non mi si leverà più di capo; ma di tutto quest’altro ammorsellamento, di tutto quel pasticcio e guazzabuglio non me ne ricordo né me ne ricorderò più che delle nuvole dell’anno passato”.
Com’erano le nuvole dell’anno passato? Qualcuno di voi le ricorda? Di che forma erano? In quale direzione andavano? Ogni cosa scorre, la più importante accanto a molte altre del tutto irrilevanti, ognuna attira la nostra attenzione e poi viene regolarmente dimenticata. Forse il solo contributo utile che posso immaginare per un futuro possibile, un futuro che sarà inevitabilmente più vostro che mio, è quello di ricordarsi di santificare la memoria. La nostra memoria oggi tanto irrisa e bistrattata. Per provare a fare meno errori, rispetto ai moltissimi che comunque continueremo a fare, potrà essere utile ricordare com’erano fatte le nuvole dell’anno passato.
L’analfabeta Sancio – come racconta la storia – non diventa per davvero governatore di un’isola, viene solo preso in giro dal potere (il duca e la duchessa di Aragona che per ingannare il tedio si prendono gioco della sua ingenuità e di quella di Don Chiscotte); l’isola poi non è un’isola, che ai semplici si potrà far credere anche l’incredibile, Dulcinea non è una meravigliosa dama ma una povera contadina che bada il bestiame e il destriero di Don Chisciotte, Ronzinante, non assomiglia in nulla al Bucefalo di Alessandro Magno.
Cervantes per tutto il romanzo ci avvisa che perfino dentro la commedia nulla è come sembra, che la pazzia confina molto spesso con la poesia e perfino con l’intelligenza, che tutto è inestricabilmente connesso. Tutto parla con tutto, nella testa del cavaliere errante così come nella nostra. Noi questo, in fondo, continuiamo a non saperlo: per primi ridiamo della dabbenaggine dei protagonisti senza essere sfiorati dal sospetto che Don Chisciotte e Sancio Panza siano molto simili a noi. Che quello che leggiamo in un romanzo scritto nel 1605 forse succede oggi anche qui.
Il grande cervello digitale nel quale siamo immersi assomiglia molto al grande cervello raccontato da uno scrittore spagnolo molti secoli fa. Le illusioni e gli incantamenti ai quali siamo sottoposti non sono tanto cambiate.
Cervia, 21 marzo 2025 (PDF)
Marzo 21st, 2025 at 14:21
Massimo, non commentavo su un blog probabilmente da più di un decennio. Lo faccio solo per ringraziarti per le tue parole, le tue riflessioni. Buona Rete (di qualsiasi forma)
Marzo 21st, 2025 at 14:46
Maremma miseria, abbracciami Mante
Marzo 21st, 2025 at 15:43
Pippone gigantesco che mi propongo di rileggere. – Intanto qui posso affermare che il blog che ho aperto è stata l’esperienza digitale più bella e lunga che io abbia mai intrapreso. E non perché abbia sempre scritto cose che hanno resistito nel tempo, ma perché il blog dà una visione storica dei miei cambiamenti. Lo dico perché penso che anche questo blog fa la stessa cosa: non racconta idee luminose e imperiture, ma racconta una storia, un percorso, molto più interessante delle idee perfette. – Nel mio caso la vita digitale si è anche intrecciata con la vita “reale”, in carne ed ossa. Se la mia traccia in rete è piccola e insignificante, in quella di alcune persone che ho frequentato grazie alla rete un po’ meno. Senza i bit in rete alcune esperienze non le avrei proprio vissute. Non avrei conosciuto persone straordinarie. Quindi sì, nel mio caso la rete ha ampliato il mio mondo. Forse non tanto come ci immaginavamo da giovani, ma di sicuro più di quanto poteva accadere in un’era precedente. – Io spero di leggerti ancora qui, non importa quanto raramente e non importa se nemmeno “cosa”. L’importante è come: con passione, come sempre. Grazie.
Marzo 21st, 2025 at 19:46
Riflessioni condivisibili. Complimenti per essere riuscito a “staccare la spina”. Credo che sia un po’ come smettere di fumare, con la differenza che il fumo è dannoso tout court, i social qualche piccola utilità possono anche averla.
Marzo 21st, 2025 at 21:08
Mentre leggevo continuavo a pensare alla necessità di stampare il post, per poterlo leggere con calma. E in fondo trovo il PDF.
Grazie da ora per le riflessioni che farò, per farmi trovare parecchi punti e spunti di partenza, per il mettere nero su bianco parecchie sensazioni che faticavo a visualizzare e anche per il PDF.
Marzo 22nd, 2025 at 00:37
Marzo 22nd, 2025 at 18:05
Che lunga riflessione bella che hai scritto, guarda. Che meraviglia il finale su Don Chisciotte e il suo/nostro cervello. L’ho letta stamattina e l’ho riletta adesso, perché volevo commentare con qualche riga un po’ più intelligente di così… E invece solo questo riesco a dire: che cosa bella che hai scritto.
Marzo 22nd, 2025 at 21:03
Avrei voluto continuare a leggere all’infinito ma poi purtroppo scrollando e’ arrivata la fine e quasi mi scendevano le lacrime. E’ un periodo così per me, di fragilità, e leggere ogni tanto i tuoi post mi fa respirare meglio.
Marzo 22nd, 2025 at 23:32
Non ti conoscevo. Arrivo ora per la prima volta su questo blog. Ti dirò che condivido molto di quanto hai scritto. Sono in un periodo di grande messa in discussione, in diversi ambiti, tra i quali internet e i social. Mi ha colpito molto la parte in cui parli dei social come strumento di affermazione personale. Anch’io sento un grande bisogno di disconnessione, di fuga, di liberazione. Un po’ ti invidio perché hai espresso una grande volontà personale, secondo, andandotene. E io ancora non so se riesco a esercitarla per me. Non so se lo voglio davvero. Che trappola! Comunque pian piano recupererò gli altri tuoi post. Grazie per queste belle parole che hai condiviso.
Marzo 23rd, 2025 at 09:47
Potrebbe essere il momento di un grande romanzo sulla disillusione generazionale.
Ma forse lo hai già scritto.
Marzo 24th, 2025 at 14:34
Utilizzo LinkedIn da molto tempo, per attività di sviluppo commerciale, e posso confermare (e ringraziarti per aver sintetizzato in maniera chiara) la marea di legami deboli che si creano e di quanto sia vero quello che racconti in Bassa Risoluzione.
P.S.: Devo trovare il modo per adattare quanto hai scritto per mia figlia che si sta affacciando ai social network :-) .
Marzo 24th, 2025 at 16:31
“Canto notturno del boomer errante nell’internet”
Un’elegia da far lievitare nella mente e nel cuore.
Grazie.
Marzo 25th, 2025 at 11:12
Un testo bellissimo e da rileggere. Mette in fila tanti pensieri che mi giravano in testa da qualche tempo, ma aggiunge tanto altro. “Mi interessavano le informazioni e mi interessavano le persone”: dal mio punto di vista, sicuramente parziale, il cuore del problema, almeno per come vivo io questa cosa.
Marzo 25th, 2025 at 21:45
Riflessioni interessanti. Probabilmente chi ha superato i 40 si è, con molta probabilità, rotto le balle di seguire le mode della rete, postare foto e selfie e tendenzialmente vuole godersi la vita che per fortuna non è Internet.