A volte, molto raramente, le parole di qualcuno che non conosci chiudono definitivamente ogni questione e ti fanno dire: è così e basta.

Monica Rossi (che è uno pseudonimo) su FB:


“E adesso scrivo quello che quell’intervista ha fatto a me.
Io penso che se l’avessi letta cinque anni fa avrei solo voluto abbracciare Michela Murgia e prendere a calci in culo tutti quelli che l’hanno attaccata.
Un abbraccio lungo, di quelli che di solito mettono anche un po’ in imbarazzo.
Uno di quelli che si concludono ciondolando sui piedi a destra e sinistra mentre l’abbracciato si chiede se la cosa deve durare ancora molto.
Oggi farei lo stesso.
L’abbraccerei.
Ciondolamento compreso.
Però poi mi staccherei, la guarderei negli occhi e le direi “Michela, scusa eh, ma che cazzo dici?”
La verità è che io quell’intervista non l’ho letta.
Anzi: l’ho letta sì, ma con la nausea.
L’ho letta da stordito.
E la nausea mi è venuta da subito.
Già dalle primissime due righe:

“Michela Murgia, il suo nuovo, splendido libro, “Tre ciotole” si apre con…”

Splendido? Ma perché?
Ma è un’intervista o un promo?
E un intervistatore serio può davvero essere così imparziale?
L’ha davvero già letto?
Lo sa che definendolo un libro “splendido>” proprio all’inizio sta di fatto manipolando sia l’intervista che i lettori?
Ma questo è un peccato veniale, nulla di grave per carità siamo uomini e donne di mondo. E di marketing.
Quello che è grave, veramente grave, è la risposta alla seconda domanda.

“lei scrive carcinoma renale al quarto stadio. Non ci sono speranze?”

Risposta:
“dal quarto stadio non si torna indietro”

Ora: Murgia fa la scrittrice, non la fruttivendola.
Murgia sa che scrivere è soprattutto esattezza.
Murgia lo sa che una semplice parola, di tre lettere, ovvero “MIO”, scritta fra “dal” e “quarto” avrebbe dato un senso completamente diverso alla sua risposta e a tutta l’intervista?
“Dal MIO quarto stadio non si torna indietro.”
Messa così cosa puoi dirle?
Niente.
La vorresti abbracciare e basta.
Senza quel “mio” invece è tutta un’altra storia.

Murgia lo sa che mio papà, ad esempio, è stato tutto il giorno in pena per quell’intervista?
E la mia dolce metà pure.
E io? Non ne parliamo.
E migliaia di malati di cancro al quarto stadio?
Perché io sono al quarto stadio.
Io forse ho avuto più metastasi di Murgia.
Perché una mi deve togliere la speranza?
Perché mi deve dire che sto morendo?
Ma perché?

Io da tutta questa rottura di coglioni del cancro magari non avrò imparato niente, ma una cosa sì: un po’ di altruismo.
Sono stato operato 7 volte, un anno di chemio, stomia per 6 mesi, 28 sedute di radioterapia e tante altre cose che neanche mi ricordo ma mai e poi mai mi sognerei di togliere la speranza agli altri. Anzi.
Perché è solo quello il problema.
Io sono ben consapevole del fatto che “ogni tumore è un caso a sé”.
Sono l’intelligentone del gruppo?
Ma col cazzo.
Sono come tutti gli altri pazienti, i malati, i terminali, quelli del “quarto stadio” insomma, che la pensano uguale.
Trovatemi un malato di cancro, uno solo, che dopo quell’intervista si è sentito sollevato, in pace, speranzoso. Uno, uno solo.
Ai sani invece quell’intervista avrà dato sicuramente tanto coraggio e avrà trasmesso tanta forza, certo.
Avranno capito che Michela Murgia ha scritto un libro “splendido” e che le rimangono “pochi mesi di vita”.
Perchè quello è il virgolettato riportato ovunque e quello e ciò che è voluto far rimanere.

Sì, ma poi?
Dopo mezz’ora?
Si va a nuotare?
A mangiare il pesce?
A scopare?
Ma i malati no.
Perché i malati e i famigliari dei malati su quell’intervista ci hanno rimuginato per giorni.
Oh, ma io posso sbagliarmi.
Magari l’ho presa troppo sul personale.
Possibile? Possibile.
E per quello che ho aspettato la mattina dopo per risponderti, caro Pinna.
Perché la mattina dopo ho chiamato in ospedale per parlare con la mia oncologa per chiederle se davvero fossi io quello in errore.

La sua risposta:

“Ehy ciao. Io ti dico solo che prima della chemio parlo con ogni paziente per valutare gli esami del sangue, informarmi sugli effetti collaterali che hanno avuto, visitarli e chiedere come stanno.
15/20 minuti per ogni paziente.
Oggi le visite sono durate un’ora. Minuti e minuti spesi a rassicurare, asciugare le lacrime, calmare, informare.
Quell’intervista è stata micidiale.
Mi-ci-dia-le”.

Altro che speranza: in quell’intervista siamo già a Marco Cappato e non nominiamo e spieghiamo neanche -ad esempio- che cos’è la sedazione profonda.
Ma c’è un’altra cosa, ben più sottile, che quelle parole hanno fatto.
E l’hanno fatta ai sani.
Parole pronunciate di domenica sul Corriere ad Aldo Cazzullo e rivolte a milioni di persone.
Non di mercoledì pomeriggio al Kebab davanti a Chiara Valerio.
Un’altra cosa, dicevamo.
E cioè la subdola e strisciante convinzione che dire tumore vuol dire morte.
E non è così cara Murgia.
Non è così.
A me il 13 agosto 2018 mi è stato detto che senza terapie sarei morto dopo sei mesi.
“E con le terapie?”
“E con le terapie non si sa. Falle. Facciamole. Un passo alla volta. Noi saremo con te e faremo tutto il possibile. Nessuno ha la bacchetta magica ma proviamoci. Crediamoci.”
Così mi ha risposto la mia oncologa, il mio chirurgo e tutto lo staff medico.
E così è stato.
Sincerità sì, ma anche speranza.

Serve la speranza a guarire dal cancro?
No, macchè.
Ma serve -e tanto- ad affrontare la chemio, la radio, gli ospedali, gli interventi.
E sai a chi serve anche? Ai medici, ai ricercatori, agli studiosi, ai sani.
Ai sani di oggi che saranno sfortunatamente malati domani che a forza di leggere parole come le tue una volta ricevuta la diagnosi non potranno fare altro che collegare il cancro a una bara.
Quindi ancora più disperazione, buio, vuoto, depressione, sistema immunitario a puttane.
Per non parlare di quelli che passo dopo minuscolo passo hanno portato ad esempio Camillo Porta, Ordinario di Oncologia all’università di Bari, a rispondere a Michela Murgia testualmente così:

“Oggi come oggi, soprattutto per il tumore renale, i pazienti lungosopravviventi anche al quarto stadio sono una realtà, e iniziamo timidamente a parlare di guarigione.”

E questo Camillo Porta, mi si permetta, non è proprio l’ultimo arrivato.
Non sarà uno scrittore, certo.
Ma saprà quello che dice o lo vogliamo derubricare a uno che spara cazzate così, tanto per?

Sincerità, speranza, sincerità, speranza.

Un esempio?
A me una settimana fa, durante il controllo trimestrale mi è stato fatto un cazziatone perché in ospedale arrivo sempre pieno di tagli e lividi perché faccio motocross, mi arrampico, nuoto, gioco a tennis e molto altro.
E poi? E poi con un sorriso mi è stato detto che si è riformata una metastasi in un polmone.
Con un sorriso?
Sì, perché può capitare, perché è minuscola, perché verrà seccata dalla radio, perché stai tranquillo.
Quindi: “fai pure motocross ragazzo mio, però, insomma, cerca di stare attento.”
Perché anche questo è avere il cancro nel 2023.
Anche questo.
Non solo questo ma anche questo.
Però vedi, caro Pinna, c’è anche altro.
Perché io poi quell’intervista ho continuato a leggerla e mi sono trovato come ti sei trovato tu dopo che ho nominato tua moglie e i tuoi figli: confuso e spaventato.
Mi confonde ad esempio quando parla del primo tumore.

E lo fa così:

“lei aveva già avuto il cancro?”

“Sì, a un polmone. Era a uno stadio precocissimo, lo riconoscemmo subito. Una botta di culo.”

E allora io sono andato a rileggere l’intervista dell’epoca in cui parla di quel tumore.
Intervista del 2016.
Intervista su Donna Moderna.
Intervista, così come quest’ultima, uscita esattamente il giorno stesso in cui uscì il suo libro Chirù.
Intervista che, a dispetto dello “stadio precocissimo, lo riconoscemmo subito. Una botta di culo.” fu deciso di raccontare così:

“Michela, che cos’è per te Chirù?

“È il libro che ho deciso di scrivere quando ho scoperto di avere un cancro. Per raccontare cose che pensavo di dover invecchiare prima di poter narrare. Invece mi sono trovata a chiedermi quanto tempo avessi ancora davanti. E ad affrontare l’idea che quello potesse essere il mio ultimo libro.”
Stesse parole di oggi.
Ma io non discuto quello.
Io discuto questo:

“tu ce l’hai fatta Michela?”

“Sì, come tanti. Capita a tanti di ammalarsi di tumore e di uscirne vivi. Dovremmo metterci tutti insieme noi sopravvissuti. E parlarne, farlo sapere che il cancro non è un “male incurabile”.
I medici ti dicono: “Tutto ok, il male non dà segni di vitalità”.
Tu però sai che il tumore è come un signore che, seduto su una panchina, se ne va dimenticando il giornale. Potrebbe tornare a prenderlo in qualsiasi momento. O non tornare mai più. Da lì ho deciso che voglio vivere tutto.
E lo discuto perché poi, dopo 7 anni leggo questo:

“questa volta come se n’è accorta?”

“non respiravo più. Mi hanno tolto 5 litri d’acqua dal polmone.
Ma a causa del Covid avevo trascurato i controlli.”

E se siamo tutti d’accordo nel dire che scrivere significa soprattutto esattezza allora c’è qualcosa che mi sfugge.
I controlli oncologici si trascurano perché in giro c’è il Covid?
Perché l’ospedale non li fa?
Perché tu sei stata contagiata?
Perché ti sei dimenticata?
Perché non hai voluto farli?
Perché sei un kamikaze?
Eppure tu il cancro l’hai avuto, e quindi sai bene come questi controlli siano fondamentali e di vitale importanza.
Cioè, in soldoni: sono quelli che scandiscono la tua vita. Sono quelli che ti dicono se vivi o no.
E quindi che messaggio diamo a milioni di persone che leggono?
Che i controlli possono essere trascurati per incomprensibili motivi?
E poi: migliaia di parole per parlare di un libro e della morte imminente e nemmeno una, una soltanto, per parlare, chessò, di prevenzione?
E sempre a proposito di esattezza mi ha colpito un’altra frase di quell’intervista:

“mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci”
Ebbene, questa frase mi confonde ancora di più.
Perché il giorno dopo l’intervista, il giorno in cui è stato lanciato il suo libro, Michela Murgia in diretta social si è fatta tagliare i capelli a zero perché “ero sicura che i miei capelli avrebbero resistito. Invece mi passo la mano fra i capelli e mi resta una ciocca in mano”.

Però poi uno s’informa, va a leggere e scopre che l’immunoterapia a base di biofarmaci ha un effetto curioso: non solo rinforza i capelli ma addirittura fa tornare neri quelli bianchi.
E allora sì che ti viene da scrivere “Mah. Un grande mah.”

E -bada bene- ti viene da dirlo solo per quello che ho riportato. Che è tutto verificabile.
Voglio essere chirurgicamente preciso: per la confusione e il dolore che le sue parole hanno generato.
Anzi, di più: voglio usare la stessa frase che ha pronunciato la Murgia qualche giorno fa per rispondere a Burioni:

“Le parole sono importanti, ci si ammala anche di parole: la comunicazione ha un valore cruciale.”
Parole sante Michela, parole sante.
Tu sei sicura di avere scelto quelle giuste?

Sulla Meloni, Salvini, il fascismo, il cancro che è il prezzo da pagare per essere speciali e tutto il resto non mi pronuncio perché sono opinioni, con cui si può o meno essere d’accordo.
E il mio grande mah -bada ancora meglio Pinna- non vuol dire affatto che io non credo a Michela Murgia.
Non vuol dire affatto che non le auguri il meglio possibile e immaginabile.
Questo non è un attacco.
Trattarla con perenne stucchevole compassione lo sarebbe.
Perché alla fine il grande “Mah” che mi gira in testa, caro Pinna, è quello che mi porta a chiedermi se, sotto sotto, non ci sia qualcosa d’irrisolto.”


3 commenti a “Murgia, Cazzullo e la malattia”

  1. Beppe dice:

    Sì, è davvero così.

  2. Vincenzo dice:

    Accidenti… parole audaci. Comunque anche molto vere! Saluti.

  3. Maury dice:

    Sono rimasto colpito dalle parole Monica Rossi, perchè è una delle poche volte che ho letto di cancro senza la classica divisione tra chi è in guerra e chi si rassegna. Ecco, io nell’intervista di Michela Murgia ho sentito accettazione della malattia che anche io ho sperimentato nel mio piccolo, però, non ho sentito (e posso sbagliarmi) parole di altruismo e speranze.