Qualche giorno fa è morto un ragazzo. Aveva 25 anni. A 25 anni un ragazzo è ancora un ragazzo. È morto improvvisamente, come capita talvolta ai giovani in ottima salute: io di lui non ne sapevo nulla. Ho letto per la prima volta il suo nome leggendo Giulio Mozzi su Facebook
Non conoscevo Gabriele Galloni. Non lo avevo mai sentito nominare, non avevo mai letto un suo verso. Ora Gabriele Galloni non c’è più. La rete pullula di testi suoi, che mi sembrano molto belli. Farò l’unica cosa che posso fare: mi procurerò i libri, leggerò, mediterò.
Galloni era un poeta, che è una di quelle definizioni che, per come sembra a me, stanno sempre larghe a chiunque, suonano auliche e ridicole assieme. Poeta: una parola irreale, se appoggiata alla faccia di quasi tutti, e che invece, nel caso di Gabriele Galloni, mi è risuonata esatta fin dal primo momento. È morto, improvvisamente, in una giornata di inizio settembre, Gabriele Galloni poeta.
Due giorni prima di morire Gabriele ha pubblicato questa poesia sulla sua pagina Facebook:
Nei giorni successivi su alcuni siti web è stato scritto che Galloni si sarebbe suicidato: ove era possibile gli amici, arrabbiati, hanno fatto presente che non era vero, che non si sapeva di cosa fosse morto e che per favore la smettessero di scrivere bugie.
Galloni, del resto, per tutta la sua carriera poetica si è occupato di morte: le 46 poesie di “In che luce cadranno” — per fare un esempio — non si occupano d’altro:
Quando Galloni cominciò a collaborare con la rivista online Pangea chiese di scrivere di morte, il progetto era intervistare malati terminali. Si chiamava “Cronache della fine”. Non meraviglierà troppo allora il riflesso automatico e superficiale di associare la sua improvvisa scomparsa con il suicidio.
Nei giorni in cui, seguendo puntigliosamente i consigli di Giulio Mozzi, iniziavo a cercare in rete i libri di Galloni (non è semplice con i libri di poesia, gli editori sono spesso piccolissimi, la distribuzione problematica) stavo leggendo una biografia di Guido Morselli la cui vita con la poesia, il talento e soprattutto la morte ha avuto molto a che fare. E sono stati proprio alcuni piccoli particolari della vita di Morselli che mi hanno messo in guardia dalle correlazioni automatiche: dai due più due che sempre fanno quattro.
Morselli si è ucciso, a Varese, nella sera fra il 31 luglio e il 1 agosto 1973. Si è sparato un colpo di pistola (la celebre Browning citata nel suo ultimo libro come “la ragazza dall’occhio nero”). Prima del colpo fatale si è avvolto un asciugamano intorno alla testa: non gli piaceva l’idea di sporcare il pavimento con il proprio sangue. Morselli era del resto un uomo con le sue stranezze. Una volta si fece dare da Adelphi l’indirizzo di Konrad Lorenz: intendeva scrivergli per chiedere consiglio per un problema che lo affliggeva da tempo: un’invasione di ghiri sul tetto di casa che non lo facevano dormire.
“Io abito tutto l’anno, una piccola casa di campagna al margine di un bosco, presso il lago di Varese (un lago prealpino che presenta qualche rassomiglianza con il vostro lago di Starnberg). Ora casa mia è letteralmente devastata dalle incursioni dei loirs ((italiano: ghiri, tedesco, come vedo, Haselmause…”
Non è chiaro se il noto etologo gli rispose. In ogni caso Morselli scriveva molto e non solo alle case editrici. Scrisse a Vittorio Gasmann (che gli rispose) a Giovanni Spadolini (che rifiutò la sua collaborazione) a Benedetto Croce e a molti altri.
Galloni scriveva di morte: Morselli collezionava maniacalmente (dentro una cartelletta azzurra che teneva sulla scrivania e sulla quale aveva disegnato un fiasco stilizzato) le lettere dei rifiuti editoriali alle sue opere che lo avevano accompagnato per decenni. Per questo — pensiamo noi — a un certo punto non ce l’ha fatta più e si è sparato.
La morte per suicidio però è più complicata di così. Talvolta potrà essere frivola e impulsiva, altre volte scaverà nella roccia per anni fino a trovare un passaggio. E nessuno, fra noi che siamo rimasti qui ad osservare, saprà con esattezza cos’è successo davvero in quei 5 secondi o in quei cinquant’anni.
Lentamente, faticosamente, il corriere suona al campanello di casa consegnando ad uno ad uno i piccoli libri di Gabriele Galloni. E questa, ormai, è l’unica cosa che posso fare. Leggere le sue poesie e pensare cos’altro ci avrebbe potuto donare se fosse ancora con noi. Specie ora che la sua morte, quasi per uno scherzo, me l’ha fatto conoscere.
I romanzi di Guido Morselli furono pubblicati postumi e sono spesso considerati capolavori (Dissipatio H.G. certamente lo è), alcuni critici dopo la sua morte provarono a scusarsi per averli sottovalutati, altri rimasero in silenzio. Del resto la storia editoriale di cosa si pubblica e cosa no è piena di infortuni e grandi sottovalutazioni. Il carteggio con Italo Calvino in ogni caso, se vi capiterà, vale la lettura. Ma nella biografia di Morselli, che stavo leggendo mentre scoprivo le poesie di Gabriele Galloni, c’è un passo, citato quasi sottovoce, che mi ha colpito e che riguarda il nostro pensiero automatico sulla morte.
Molti anni prima del suo suicidio, quando aveva una quarantina d’anni Guido Morselli subì un misterioso infortunio. Dopo un litigio col padre, che gli aveva domandato per l’ennesima volta di occuparsi un po’ degli affari di famiglia, Morselli tornò a casa e dalla sua pistola partì un colpo, che lo ferì alla tempia sfiorandolo appena e che poi mandò in frantumi una finestra.
Quella volta, per sua e nostra fortuna, non accadde granché: solo un po’ di sangue sul pavimento.
Settembre 30th, 2020 at 11:10
Buongiorno, neanche io lo conoscevo, ora in internet ne parlano tutti. Capita sempre così, è normale. La morte attira quando è ancora lontana.