Data la kermesse odierna del PD su #labuonascuola incollo qui la parte del mio libro che riguarda la scuola digitale. Piccole cose semplici e necessarie. Almeno viste da qui.

Quindi i nativi digitali non esistono, ma esistono ragazzi svegli che avrebbero bisogno di una scuola nella quale si parli delle cose della loro vita. Come un tempo esistevano le ore di educazione civica (che tutti noi vivevamo come un intervallo di barbosa decompressione) oggi sarebbero molto utili ore di lezione in cui si impari l’abc digitale. L’universo di rete è straordinariamente complesso e pieno di sfaccettature: abbiamo bisogno che i nostri ragazzi affrontino una simile complessità e si attrezzino per decodificarla con rigore come Umberto Eco si attrezza con un libro per ristimolare la memoria.

Molti corsi di studi in tutto il mondo si aggiornano, inserendo nella didattica la programmazione e i suoi linguaggi; ma questo è solo un aspetto del problema ed è quello di cui tipicamente si occupano i sistemi educativi diversi dal nostro, molto centrati sulle materie scientifiche. A Londra ci sono alcune scuole private dove fin dalle elementari ai bambini vengono servite matematica, fisica e informatica e poco altro. Le frequentasse mia figlia non sarei contento. Per antico vizio io vorrei anche che imparasse a memoria le poesie di Ungaretti. E questo non è un altro discorso.
Ma se la scuola è la nostra grammatica del mondo, allora oggi internet deve essere compresa al suo interno nel doppio ruolo di fonte didattica e di linguaggio da imparare. Insegnare attraverso internet è un passaggio inevitabile della scuola di domani: alcuni solitari eroi lo stanno facendo già ora senza che nessun ministro glielo abbia imposto.

La dotazione minima per iniziare non è nemmeno sconvolgente: un notebook, una connessione internet e un videoproiettore, perché la rete diventi il libro di testo sfogliato dall’insegnante dentro una nuova lavagna senza ardesia. Immagini, testi, poesie, i filmati storici, la musica del mondo, ognuna di queste informazioni può uscire dalla rete per raggiungere i nostri ragazzi condotti per mano dai loro insegnanti; e se quel giorno durante la lezione di geografia si parlerà di Parigi o di Vienna, sarà possibile passeggiare nelle vie del centro o osservarla dall’alto o guardare immagini della torre Eiffel in costruzione. O ascoltare Édith Piaf che canta «La Marsigliese». E poi magari vedere Marsiglia, e poi e poi e poi.
Mentre gli insegnanti gli mostreranno il mondo in questo modo nuovo e affascinante, i ragazzi, i cosiddetti nativi digitali, esperti di Instagram e Snapchat, potranno allenarsi a riconoscere i linguaggi della rete, a evitarne le trappole, a fidarsi delle migliori fonti. E a scrivere loro stessi quella rete che, a differenza dei vecchi libri di testo, non è immobile e granitica ma aperta al talento e al cambiamento. Anche al loro personale contributo, quando e se decideranno di indirizzarlo da quelle parti.

Internet a scuola è una scommessa a lungo termine, centrale e difficilissima per mille ragioni note. Ma è anche l’unica concreta possibilità di uscire dall’isolamento culturale nel quale ci siamo volontariamente rinchiusi. A questo, se tutto andrà bene, potrà seguire il resto. Si annacqueranno il biasimo degli intellettuali, le articolesse indignate dei prestigiosi quotidiani, le alte grida dell’associazionismo conservatore. Oppure le ascolteremo ancora ma sarà il suono in lontananza del pazzo, la litania della beghina alla quale nessuno presta più attenzione perché, nel momento in cui il mistero doloroso della internet cupa malvagia e soprattutto inutile viene rivelato e mostra la propria inconsistenza, tutto finirà per adagiarsi nella sua placida normalità.

I libri elettronici, che sono stati al centro delle discussioni e delle polemiche sulla scuola digitale in questi ultimi anni, quelli, poi, magari verranno. Ma è evidente che non sono i libri in questa fase il nostro problema. Non lo sono stati fin dall’inizio: l’accelerazione modernista del ministro dell’Istruzione Profumo, che voleva portare in tempi rapidi gli ebook in scuole nemmeno connesse a internet, era un’assurdità di vaste dimensioni. E in ogni caso la scuola non è i suoi libri (come direbbe Luca De Biase, autore della nota frase «i giornali non sono la loro carta»). Ridurre l’innovazione didattica all’adozione di nuovi oggetti in forma di libro (più leggeri e dotati di schermo) e nuovi formati (con contenuti molto simili e affidati ai medesimi intermediari) era un’altra maniera per continuare a ragionare come in passato dopo essersi rapidamente cambiati d’abito.

Partire dalle scuole significa per ora collegarle a internet e riporre fiducia nello spirito costruttivo e nella fantasia degli insegnanti e, possibilmente, del legislatore. Trovare un governo delle 3 i (uno qualsiasi) disposto ad andare oltre gli slogan per spendere soldi per l’innovazione a scuola e per premiare come merita chi, durante l’ora di geografia, non segnerà più con l’asta di legno la carta plastificata dell’Europa politica indicandoci dove sia Parigi e raccomandandoci di studiarla su una scheda fotocopiata male, ma ci porterà a spasso gli alunni con Street View per Rue de Seine a sbirciare le vetrine delle gallerie d’arte e poi giù in fondo fino alla Senna. E poi, guardate, lo vedete il Louvre di là dal fiume? La vedi Notre-Dame laggiù a destra su quella specie di isola?

In tutta questa idea di rivoluzione scolastica è evidente che gli insegnanti rappresentano il tessuto connettivo sul quale sarà necessario appoggiarsi.

Personalmente sono assai dubbioso sul fatto che il passaggio verso una scuola digitale possa avvenire attraverso un processo di alfabetizzazione rigidamente imposto ai docenti. Vale per loro, esattamente come per qualsiasi altra categoria lavorativa, l’incombente problema del divario digitale, poiché è ovvio che dentro quel 40% di italiani che non accedono alla rete sarà possibile trovare anche un numero abbastanza cospicuo di insegnanti. Anche in questo caso le imposizioni rigide verso l’utilizzo delle tecnologie nell’insegnamento rischiano di determinare fenomeni di rifiuto più o meno organizzati. Forse il percorso giusto potrebbe essere quello di immaginare una serie di imposizioni deboli legate alla «innovazione spintanea» ma, soprattutto, meccanismi di incentivazione anche economica ai nuovi maestri digitali. Esiste un’agenda digitale che passa per la scuola e che deve organizzarsi per riconoscere, premiare e incentivare le buone prassi: compito dello Stato è stabilire quali siano (non è per nulla scontato che una simile idea di didattica digitale sia ampiamente accettata) per poi creare un per- corso preferenziale per i migliori fra i nostri insegnanti, suggerendo allo stesso tempo ad altri di seguirne l’esempio.
L’incastro complicatissimo tra infrastrutture scolastiche in muratura e digitali, formazione e nuove prospettive dell’insegnamento, dotazione tecnologica e criteri di accesso ai contenuti, è una delle assolute priorità del paese. Lo so, si dice sempre così, per tutto, eppure forse oggi davvero è giunto il momento in cui occorre uscire dalla banalità di una simile frase per iniziare a valutarne con esattezza il peso. Dobbiamo trasformarci in Nick Hornby e iniziare a fare una lista delle dieci cose più importanti per noi.

La rivoluzione digitale del nostro sistema scolastico è in cima a questa benedetta lista, viene prima di mille altre emergenze e deve essere affrontata subito, sapendo che è un tema a lungo termine. Il divario culturale nel quale siamo precipitati è oggi la ragione principale per cui questo paese è sull’orlo dell’abisso. Continuare a parlarne e basta non ci aiuterà.


12 commenti a “La buona scuola vista da qui”

  1. Paolo d.a. dice:

    Il buon senso applicato alla contemporaneità.
    Mi pare che l’annuncio di oggi del Governo vada purtroppo altrove, tanto che il premier ha dichiarato che senza una riforma della Rai non si possono ottenere riforme nel settore educativo, evocando in me più tv che internet.
    Spero che qualcuno gli faccia leggere il tuo libro o almeno questa pagina.

  2. Bic Indolor dice:

    “Molti corsi di studi in tutto il mondo si aggiornano, inserendo nella didattica la programmazione e i suoi linguaggi”

    La programmazione? I linguaggi di programmazione?
    Si, se vuoi diventare programmatore! Ma sinceramente è dai tempi del C64 che non serve conoscere un linguaggio di programmazione per usare un computer, figuriamoci un tablet o uno smartphone.

    In sintesi quello che serve in definitiva è
    1) più strumenti digitali e rete (dispositivi a basso costo, velocità di connessione, ecc.)
    2) cultura della rete: smetterla una buona volta di parlare di pedofili e fessbuk e cominciare a parlare di come si possa utilizzare al meglio la rete per accedere alla conoscenza e CREARLA, e di come il rispetto reciproco valga su un social network come e anche più di quanto vale nel mondo reale.

  3. Playrom dice:

    La programmazione non serve ad imparare ad usare pc e tablet, ma la matematica o il latino servono per capire qualcosa dalla vita?
    La programmazione è la matematica del 21esimo secolo, e stimola la mente sicuramente 100 volte più di un ora di greco o latino

  4. Paolo Cardini dice:

    Molte delle cose che penso in materia le ho tradotte nella creazione e nelle attività di un’associazione che si chiama Digiconsum.
    I pilastri sono la formazione e la tutela.
    Organizziamo nelle scuole corsi e incontri gratuiti su cittadinanza digitale e coding (sì, perché il coding non serve solo per programmare, così come il greco antico non è mai servito per fare una vacanza in Grecia), sensibilizziamo genitori, insegnanti e studenti sui rischi, le regole, ma soprattutto le straordinarie opportunità che offre la Rete e con essa la didattica digitale.
    Il concetto della tutela della cittadinanza digitale è fondamentale, perché solo quando sentiremo la necessità di rivendicare i nostri diritti digitali saremo pronti a beneficiarne pienamente. Riguardo alla scuola, ciò significa che finché i genitori non capiranno certe potenzialità e non le chiederanno a gran voce per i propri figli, sarà una battaglia isolata e persa.

  5. Bic Indolor dice:

    Chiarimento: non dico che la programmazione sia inutile, ma facendo le analogie col latino e il greco, o si insegna PRIMA a stabilire e mettere in ordine le priorità, (perchè in effetti “programmare” vuol dire questo – si pensi a quando si “programma” il proprio tempo) e POI eventualmente i linguaggi di programmazione (per chi vuole seguire questa strada) o è meglio un’ora in più di educazione fisica. Altrimenti si associa la programmazione solo a qualcosa che ha a che fare col computer: una specie di latino 2.0 o greco 3.0. E di tutto si ha bisogno fuorché di un ennesimo mattone da rifilare agli studenti spacciandolo per “istruzione del 21esimo secolo”.
    @Paolo, è difficile che i genitori chiedano quello che tu proponi (e sul quale siamo d’accordo al 1000%) perché è la scuola che ci si mette col massimo impegno ad incul(c)are a studenti e famiglie che ciè che conta è il “pezzo di carta”. Anche lo studente più volenteroso e desideroso di imparare alla fine capitola, almeno in parte. E se le promesse di “duepuntozzerizzare” la scuola partono da registri e pagelle online stiamo freschi. Il pezzo di carta resta, ma “digitale”. Oh yeah… dove ho messo le istruzioni dello scanner?

  6. ricky dice:

    … siamo già passati alla riforma successiva? Coi licenziamenti collettivi e senza le coperture per gli ammortizzatori sociali? Proprio ‘una scommessa di lungo termine’ … come direbbe il più scafato degli impiegati di partito!

    La scuola bella, la scuola buona. C’è un limite a questa insopportabile demagogia? Alla demagogia del conservatorismo VS riformismo. Un novello Berlusconi con gli steroidi.

    Ogni governo ha fatto la sua riforma del lavoro, della scuola, e della Costituzione. Il riformismo tanto per riformare è una forma puramente retorica, pubblicitaria e culturalmente devastante

  7. ricky dice:

    La rivoluzione digitale del nostro sistema scolastico è in cima a questa benedetta lista, viene prima di mille altre emergenze e deve essere affrontata subito [..]

    La rivoluzione digitale viene prima del tetto che ti cade in testa? La scuola dell’obbligo, l’obbligo a rimanere sotto un tetto assassino è una forma di tortura legalizzata

    Ae questa è la tua umanità … allora la tua santa “rivoluzione” te la puoi pure tenere, e pregare, assieme alla tua setta.

  8. massimo mantellini dice:

    @ricky ma perché prima di commentare non leggi?

  9. Carlo M dice:

    io tornerei alle barbose ore di educazione civica.

  10. Paolo Cardini dice:

    Io passerei alle divertenti ore di educazione digitale. In alcuni Paesi le lezioni sull’utilizzo consapevole dei social network sono già obbligatorie per legge.

  11. carlo mazza dice:

    @paolo cardini in alcuni Paesi l’accesso alla rete è un diritto, il dovere del diritto per un sano divertimento (come direbbe l’ideologo Jovanotti ;-)

    ai novelli democratici (che prima attaccavano il governo e proponevano diritti) oggi prude la mano autoritaria e facistoide della decretazione d’urgenza governativa, ma un’imposizione regia e un obbligo sarebbero devastanti dati gli stimoli sociali verso il digitale: per imporre un decreto regio devi anche offrire un diritto, infrastrutture e attrezzature altrimenti non è educazione ma un obbligo all’abbandono e alla repulsione

    vada per educazione civica, buona la prima, digitale senza educazione civica non va.. manca la base, e penso siamo tutti d’accordo. Il digitale è una technicality che si può acquisire quando si vuole e anche in un secondo step, senza obbligo (e senza aziendalismo e incentivi economici per meritocrazia… è una scuola non una banca) lascerei molta libertà offrendo a livello educativo tutto ciò che si può offrire e allo stato dell’arte e fin dalle scuole medie, per chi vuole. Senza alcun obbligo nè legislativo nè morale nè commerciale (obbligare all’acquisto di “un iPad per tutti” come vuol il demagogo al potere è pura follia religiosa)

  12. Paolo Cardini dice:

    La cittadinanza digitale è costituita da 4 elementi principali: alfabetizzazione, sicurezza, comportamenti (cioè regole del vivere civile online) e partecipazione. Non è dunque solo alfabetizzazione ed in questo senso ampio è molto vicina alla educazione civica.