Dice Luca Sofri di due caratteristiche rilevanti del giornalismo degli ultimi anni in Italia. L’apologia dell’io e la moda del racconto, per riassumerle. Poi leggete meglio da lui che è un bel post.
Pensavo che forse sarebbe giusto aggiungere un elemento all’analisi, un altolà di quelli che i giornalisti travolti dal proprio ego forse non contemplano ma che magari – a volte, chissà mai – andrebbe considerato. E cioè, in poche parole: chi sono i lettori di quei fogli pieni di storytelling e di opinioni che travolgono i fatti? Perché costoro non si ribellano e non pretendono maggior chiarezza e umiltà, e le 5 W eccetera eccetera?
Mi sembra che (a parte per Luca e pochi altri, me compreso) non esista in giro alcun fastidio italiano al riguardo; forse questa miccia rivoluzionaria non si accende perché un simile giornalismo dell’io è ormai una forma di comunicazione usuale in un Paese nel quale il giornalismo classico, quello dei fatti separati dalle opinioni non ha mai attecchito.
Numerosi elementi rintracciabili nei nostri fogli informativi delineano questa tendenza ad una reduction provinciale dei nostri giornali nazionali. I titoli sparati (sempre più spesso del tutto separati dal contenuto dell’articolo), le interviste a slogan, mimetiche o salmodianti (il lettore non capisce bene di cosa si stia parlando ma non importa perché non è lui il destinatario del messaggio), la linea editoriale separata da qualsiasi minima connessione con i fatti accaduti (pensate all’aderenza alle notizie del giorno nei titoli della stampa di destra o in quella degli organi di partito in genere), una ormai storica sedimentazione degli editorialisti (tanto che il 90enne Scalfari produce ogni domenica migliaia di parole a caso pur di riempire in qualche modo il giornale che ha fondato) nel loro ruolo di opinionisti eterni. Sempre gli stessi, da decenni, a ripetere sempre le stesse cose, un formidabile tappo ad ogni eventuale ricambio delle teste e delle parole.
Tutto questo e molto altro fa dei quotidiani italiani meccanismi complessi che hanno modeste parentele col giornalismo classico e modestissime con gli interessi informativi dei lettori. E all’interno di simili oggetti il tono autoriferito del cronista o il racconto di una storia anche dove la storia non c’è, sono certamente elementi di difformità rispetto ad una certa idea di giornalismo, ma nemmeno dei peggiori. Completano una idea di prodotto che già da decenni e per ragioni complicate non è rivolto ai lettori ma ha seguito un proprio discutibile percorso di specializzazione. Se poi dentro questa eterogenesi dei fini capita che a qualcuno salti il ticchio di analizzare le storture e le inadeguatezze formali della stampa italiana beh questo è il risultato. Tutto sacrosanto ma tutto, contemporaneamente, fuori contesto. Un po’ come innamorarsi di un’automobile sportiva o discutere di filosofia col proprio bellissimo gattino.
Agosto 20th, 2015 at 18:36
E sela smettesimo una volta per tutte di considerare i giornali come organi di informazione e chi ci scrive giornalisti ?
Agosto 20th, 2015 at 20:25
il fastidio si manifesta platealmente “votando con i piedi”,cioè smettendo di comprare giornali e questo sta accadendo da anni.
Agosto 20th, 2015 at 22:53
In effetti temevo di essere frainteso, e la pezza che ho provato a metterci con una parentesi forse non è stata sufficiente. Ma la mia critica non riguardava quella scrittura in cui la prima persona, o l’autore, sono parte della storia e delle riflessioni: pratica che ha anch’essa delle controindicazioni e dei fallimenti, ma è assai meno diffusa e trovo che negli ultimi decenni abbia dato anche molto di buono alla scrittura giornalistica (ripeto: anche con declinazioni inette e imbarazzanti). Parlavo dell’affermazione di sé come necessità implicita dell’autore che – non manifestandosi esplicitamente – si applica col preteso virtuosismo o ricercatezza stilistici. Insomma, non vorrei mi si pensasse critico di chi racconta la storia con dentro se stesso, che spesso È parte della storia.
Agosto 20th, 2015 at 22:56
Poi forse invece non mi hai frainteso per niente e mi inganna solo quel titolo che hai usato, ma insomma. Ciao.
Agosto 21st, 2015 at 08:23
Insomma ciao anche a te
Agosto 21st, 2015 at 08:44
Da registrare anche l’interesse dei lettori a una produzione decisamente schierata: se scrivi alla vecchia maniera come il Panorama dei bei tempi, separando i fatti dalle opinioni, il risultato non è di loro gradimento.
Poiché sono abituati alla scrittura “di partito” non gradiscono un approccio asettico, dubitano del motivo per cui l’hai fatto, ti accusano di essere di parte (e il bello è che, mancando l’intenzione di stare dalla parte di qualcuno, ti accusano a fasi alterne di parteggiare per uno o per l’altro).
Stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina forse in questo caso non è un esercizio del tutto sterile: sono i giornalisti ad aver abituato i lettori a queste formule, o sono i lettori ad aver preteso dai giornalisti che si radicalizzassero?
Agosto 22nd, 2015 at 10:17
Interessante. A me pare che lo storytelling semplicemente da noi funzioni e chi lo usa, giornalista ma anche politico, lo sa benissimo; così lo usa.
Se solo ci emancipassimo dal nostro analfabetismo funzionale esercitandoci ad approfondire un poco di più, potremo leggere le storie per quelle che sono e forse non ci sarebbe bisogno di scrivere o dibattere sul “fottuto storytelling”.
Febbraio 8th, 2016 at 09:09
[…] dello storytelling nel giornalismo italiano. Ne hanno parlato Luca Sofri, Federico Ferrazza, Massimo Mantellini. Sbaglierò, ma mi sembra che tutte le posizioni partano da un presupposto che non riesco a fare […]